San Maurizio sul Camino

da garitta a chiesetta degli Alpini

 

Quella della chiesetta degli Alpini sul Camino è una bella storia. Le storie di montagna e, in particolare, quelle delle “penne nere” sono spesso drammatiche, dure, tristi, pervase dal sentimento della riconoscenza, ma anche da quello della mesta rimembranza nei confronti dei caduti in guerra e di coloro che sono semplicemente “andati avanti”. La cappelletta di San Maurizio sul Monte Camino tramanda una vicenda un po’ diversa. Alpinissima, a tratti lieta e, pur se iniziata con la guerra e con il ricordo di Alpini mancati troppo presto, ricca di speranza. La speranza che da fatti tragici possa nascere e vivere la pace e la serenità, come quella che unisce gli Alpini biellesi nel loro appuntamento annuale lassù sulla cima, tra canti, preghiere e l’ormai tradizionale risotto. Tutti buoni motivi per stare insieme in fraterna alpinità. Ogni anno, da settant’anni, c’è un giorno da passare sulla vetta attorno a un piccolo edificio la cui origine merita ben più delle poche righe che seguono. Il 14 dicembre 1945, sulla sommità del Camino, il delegato della Direzione Lavori del Genio Militare (ex Ufficio Fortificazioni), aiuto ragioniere Giuseppe Villa, stilava un inventario di quanto presente in quel sito e formalmente rimetteva immobili e mobili (per quanto non rimanesse molto oltre alle pareti e alle coperture) al canonico don Pietro Angelo Boggio, amministratore delegato del Santuario di Oropa. L’ultimo conflitto mondiale si era concluso solo da qualche mese, ma era già tempo di dismettere quelle strutture ritenute ormai inutili nel nuovo scenario. Così il Santuario di Oropa rientrò in possesso dei terreni che aveva dovuto cedere sei anni prima per l’urgenza di realizzare “opere inerenti alla difesa dello Stato”. In effetti lo Stato restituì non solo 500 metri quadrati espropriati, ma anche due stabili che erano stati edificati nell’estate del 1939 ad uso osservatorio antiaereo. Il 1° agosto di quell’anno l’impresario Lodovico Ramella Pairin del Favaro, su commessa del Genio Militare di Torino, avviava il cantiere per la costruzione di una casermetta a cinque vani, adibita al ricovero dei militi osservatori (che è poi diventata la “Capanna Renata” della Pietro Micca, ma questa è materia per un’altro racconto), e “a circa 250 metri, in vetta a M. Camino, una garitta per ascolto delle dimensioni di m. 2,30 x 2,50 (interne), muratura in pietrame, copertura con soletta in c.a. – pavimento in legno”.

Proprio quella garitta, il 1° agosto 1948 (il giorno della posa della prima pietra e quello del cambiamento della destinazione d’uso coincidono), fu consacrata come chiesetta degli Alpini. Durante il periodo bellico non si registrarono fatti di rilievo, se non qualche intemperanza da parte di una delle “camicie nere” (nella fattispecie trattavasi dell’esuberante miliziano Pagliazzo) addette alla guardia di quella postazione eretta per iniziativa della DICAT ossia Milizia Nazionale Difesa Controaerea Territoriale. Dopo l’8 Settembre quell’area non fu più presidiata con regolarità e, di fatto, passò sotto il controllo delle formazioni partigiane. Degli arredi, degli infissi e della mobilia non restò nulla e all’atto della riconsegna di cui sopra della casermetta e della garitta erano rimasti solo i muri. L’idea di riconvertire quei ruderi in un così significativo luogo di culto e di identità venne a Giuseppe Busancano. L’11 luglio del 1939, per una sciagura sul Gran Paradiso (un’esercitazione della Scuola Militare d’Alpinismo di Aosta finita tragicamente per altri due allievi sottufficiali e il loro tenente istruttore scendendo dalla Punta Patry), aveva perduto l’amato figlio Federico, la promessa dello sci e dello sport biellese, noto a tutti come “Ico”. Già nel 1940-1941 aveva inteso onorarne il ricordo proponendo l’erezione a sue spese di una cappelletta votiva “nei pressi dell’Albergo Savoia, e precisamente sul terrapieno fra la Stazione superiore della teleferica e l’Albergo, ove attualmente sorge il pennone della Bandiera”. Tuttavia lo stato di guerra non permise di sciogliere quel voto. Il segno indelebile della breve vita di “Ico” Busancano è inciso sul fianco dei monti che tanto aveva amato: la pista che serpeggia dal Lago del Mucrone a Oropa porta il suo nome. Ma il nome dello sfortunato sottotenente è inciso anche nella pietra che accoglie gli alpinisti sulla soglia della chiesetta del Camino. Sì, perchè lo sconsolato padre non si era dato per vinto e alla fine era riuscito a convincere il presidente della Sezione ANA di Biella, il ragioniere Mario Balocco, a tentare ancora. Fu la volta buona. Saputo che il Santuario di Oropa aveva nelle sue disponibilità quel che restava della garitta dell’osservatorio, il capitano Balocco si era attivato per accaparrarsi quelle esigue rovine.

Il 15 giugno 1948 gli amministratori delegati di Oropa, il canonico Ottino e il comm. Blotto Baldo, acconsentirono lodando l’iniziativa (ma precisando che onori e, soprattutto, oneri sarebbero stati sempre e comunque a carico dell’ANA di Biella). Nessun dubbio sul patrono. Dapprima dipinto è poi scolpito nel granito, sopra la porticina si legge:
“San Maurizio proteggi e benedici gli alpini”. Il comandante cristiano della legione martire che “faceva leva” a Tebe in Egitto e che, alla fine del III secolo, fu sterminata sul Rodano appena prima del Lago Lemano è da sempre il “generale celeste” di tutte le “penne nere”. I lavori iniziarono immediatamente e, malgrado le difficoltà dovute all’ubicazione dello stabile, procedettero speditamente. Ovvio: per gli Alpini nulla è impossibile. Per Giuseppe Busancano si stava avverando un sogno quasi decennale: di buon grado avrebbe sostenuto le spese per i lavori di ripristino (interventi edilizi e infissi, inclusa la porta). Per Mario Balocco, che non aveva problemi per le operazioni in alta quota (capocantiere l’Alpino Giacomo Ramella Gal), si trattava di affrontare e risolvere quelli a bassa quota. A volte, le grane peggiori non sono quelle della “trincea”, bensì quelle della “fureria” e delle “retrovie”. I suoi Alpini lavoratori avrebbero fatto tutto per bene e per tempo, ma bisognava anche arredare la cappelletta, organizzare la logistica e la cerimonia di consacrazione, invitare chi meritava di esserlo, far sì che tutti sapessero che a 2391 metri sul livello del mare, a due passi da Biella e a un passo da Oropa (si fa per dire…) sarebbe sorto un sacrario alpino. La buona volontà di solito viene premiata e, sebbene il 1948 non fosse un’annata da vacche grasse, il tenace Balocco la spuntò in molti frangenti e fu anche aiutato dalla sorte.

Un esempio? Il 1° agosto 1948 entrò in funzione la seggiovia del Camino. Fu messa in moto apposta, senza nemmeno una vera e propria inaugurazione (che avvenne in seguito), e questo consentì ai primi ardimentosi di salire in cima senza fatica. Non tutte le 5.000 persone che assistettero alla festa alpina attorno alla nuova cappelletta, ma di certo parecchi curiosi (o pigri) non si lasciarono sfuggire l’occasione di sperimentare l’impianto appena piazzato. Nel manifesto verde affisso in città e nei dintorni (ne furono stampati 150 e il Comune di Biella, sindaco Virgilio Luisetti, stabilì di andare incontro alla Sezione ANA con una riduzione del 40% sulla tassa prevista per legge) si scopre il sobrio programma (allora niente risotto, ma un più spartano pranzo al sacco…) che vedeva due momenti principali: la santa messa e il discorso. Per la prima gli Alpini volevano un Alpino. Fu invitato il vescovo di Biella, mons. Carlo Rossi, ma il presule declinò per via delle visite pastorali in corso (mandò in sua vece il teologo don Giovanni Arduino, parroco di San Biagio). Ma la solenne funzione doveva essere celebrata da una “penna nera”. La scelta cadde su don Carlo Banino, parroco di Camandona e cappellano alpino, nonché reduce mutilato dell’ultima guerra. Don Banino non se lo fece ripetere. Accettò con tutto l’entusiasmo che gli era proprio, chiedendo solo notizie sulla “attrezzatura” disponibile lassù per poter dire messa. Mario Balocco lo rassicurò in merito: ci stava lavorando e tutto sarebbe stato pronto. Per l’orazione ufficiale fu chiamato l’artigliere da montagna capitano avvocato Bernardino “Dino” Andreis. L’ufficiale in congedo cuneese era un fine dicitore e non avrebbe deluso (anche perchè di azioni simili ne aveva già compiute: nel 1938, quando presiedeva la Sezione ANA di Cuneo aveva “adottato” il santuario di San Maurizio della Cervasca per farne il fulcro della locale memorazione alpina). Ma lo zelo di Mario Balocco ambiva a richiamare in vetta al Camino i pezzi più grossi possibile, a partire dal Presidente del Senato della Repubblica (il primo, insediatosi da neanche tre mesi), cioè Ivanoe Bonomi, il quale era anche il Presidente dell’Associazione Nazionale Alpini. Fu possibilista fino all’ultimo, ma a ridosso del 1° agosto fece recapitare un telegramma di scuse per la sua assenza cagionata da impegni di governo. Sarebbe venuto volentieri e qualche giorno dopo la cerimonia inviò a Mario Balocco una lettera colma di ammirazione per il buon esito della manifestazione. Le congratulazioni pervenute per posta alla sede di via Vescovado 15 non furono solo quelle del Presidente Bonomi. Molti parigrado di Balocco e anche il vicepresidente nazionale, avvocato Garino (a capo della Sezione ANA di Torino), non nascosero il loro compiacimento per l’ottima prova offerta dai biellesi. L’avvocato torinese Guido Operti, che curava la redazione de “L’Alpino” scrisse a Balocco il 3 agosto: “ho assistito a decine e decine di cerimonie, ma di rado ho riscontrato una organizzazione così perfetta e un così commovente consenso di popolo”. Anche gli assenti spesero buone parole per la Sezione di Biella. Uno per tutti, Guido Alberto Rivetti: non prese parte alla giornata del Camino, ma comunicò al solito Balocco che quello della cappelletta di San Maurizio non era da ritenersi solo un gesto simbolico, ma l’atto concreto di sintesi di un più vasto operare per la rivitalizzazione dell’alpinità che andava sopendosi a livello nazionale. Quella chiesuola ricavata da una garitta rischiava di assurgere a esempio da imitare non solo a Biella o in Piemonte, ma ovunque nel Belpaese si volessero (ri)affermare i valori alpini. “Viva gli Alpini! – concludeva Rivetti – e Viva in special modo la Sezione di Biella che prima fra tutte ha riacceso la fiaccola che non si spegnerà mai poiché alimentata da un fuoco che viene dalla bontà, dal disinteresse e da quel grande spirito che ha sempre unito le Penne Nere!”.


Tutti si erano resi conto del lavoro svolto e di come la “macchina” della Sezione e dei Gruppi biellesi girasse a pieno regime. Mario Balocco si fece in quattro per ottenere sconti sui trasporti per invogliare gli Alpini a raggiungere il Camino (da Casapinta, tanto per dire, si mossero in 13, tra Alpini e familiari), martellando come un mortaio tanto le FEB Ferrovie Elettriche Biellese, quanto la SABOTE Società Anonima Biella Oropa per Trasporto Elettrico (come a dire la tramvia). Si premurò di allertare tutti quelli che potevano avere i mezzi e la sensibilità per dare una mano. Si appellò a Ermenegildo Zegna chiedendogli di poter usare i suoi camion: invece di muovere balle di greggio o pezze di tessuto si sarebbe allestito un “trasporto truppa” alla vecchia maniera. Il conte Zegna rispose che i suoi automezzi non potevano essere adattati alla bisogna, ma si offrì di pagare la trasferta a tutti gli alpini triveresi che avessero voluto prendere parte alla manifestazione. E anche altri industriali o biellesi facoltosi risposero “Presente!” alla chiamata del capitano Balocco. Anche il rettore di Oropa, il già citato canonico Boggio, si dimostrò solidale: serviva un cancello di ferro per garantire la miglior chiusura della chiesina. Fu reperito tra i rottami del santuario e rimesso in sesto come nuovo. Una chiesa, per quanto minima di proporzioni, non poteva non avere una campana. La procurò il filippino padre Bonelli con il fratello, un reduce della campagna di Russia. E non si era mai vista una chiesa senza altare e priva di quelle suppellettili alle quali don Banino aveva fatto cenno. Il crocifisso e i candelieri, opera del battiferro Gattoni, furono donati dalla famiglia Silvio Bracco in memoria del caro Andrea. La tovaglia e i paramenti liturgici furono forniti da Clelia Rivetti Gualino (Achille Braia regalò la cassetta per contenerli), mentre Riccardo Delpiano portò la lampada votiva per commemorare il figlio Leopoldo. Il legname per il rivestimentointerno e per l’altare (con gli stemmi alati in rilievo) fu messo a disposizione dall’Alpino Giancarlo Barbera e dal sunnominato Giacomo Ramella Gal. Arrivò anche un quadro raffigurante la “Madonna degli Alpini”, dono della Sezione ANA di Cuneo (oggi non più presente). Offerte in denaro sopraggiunsero dai vari Garlanda, Ormezzano, Picco, Buratti, Bozzo, Rivetti, Scribanti ecc. Il 7 agosto 1949 fu inaugurato anche il piazzale antistante la cappelletta (opere eseguite dal capomastro Grato Ramella). Il sacrario alpino biellese (che avrebbe dovuto accogliere anche un album fotografico di tutte le “penne mozze” i cui eredi avessero voluto ricordarle lassù, ma quella raccolta non ebbe sviluppo) era ultimato. Da settant’anni riceve con garbo e discrezione tutti coloro che si portano in cima al Camino, per lo più ormai ignari di ciò che si trovano di fronte. Ma come scrisse Guido Alberto Rivetti, la fiaccola non si spegnerà mai. Una fiammella resiste tra i nembi e i venti che avvolgono e sferzano il Camino, protetta da quello che fu, per pochi anni, uno strumento di guerra e che dal 1948 è, invece, un presidio di pace.

                                                                                                                                                    di Danilo Craveia